Quando tutto crolla, cosa ha ancora senso?
- Claudio Orlandi
- 24 dic 2023
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 12 mar 2024
Non possiamo toccare il mito senza che esso ci tocchi a sua volta
James Hillman
Andando in bici il mondo esterno diventa più chiaro, la terra si mostra in tutta la sua evidenza. Pedalando si ha il tempo di capire le movenze del terreno, i saliscendi, le ondulazioni. Riacquistano spessore le forme che la velocità meccanica appiattisce. Così è chiaro che arrivati in prossimità del ponte si sta lasciando un mondo per entrare in un altro. E questo altro mondo è diverso dal primo.
Gettarsi con furia sul ponte per scalare la collina. Alle tue spalle senti la presenza minacciosa delle macchine, dalle luci dei fari ne capisci la distanza, il rischio c’è ma anche l’adrenalina che ti aiuta a pedalare. Sali.
Là sopra c’è un’area di servizio, delle luci nuove, pompe di benzina e il panorama del mondo che hai lasciato. Puoi fare una sosta proprio lì, per osservare in lontananza, tra il cielo che oscura, la muraglia di palazzine, strade, luci rosse, fari, antenne, meteoriti, nuvole. È il limes.
Tra i due mondi la ferrovia, che passa sotto il ponte. Il mondo umano che hai lasciato è ora lontano mille chilometri. Ne hai conosciuto gli odori, i visi, le forme espressive, le temperature, le illusioni, i pericoli. Di qua si aprono gli spazi, i cieli immensi, i parchi che straripano vegetazione, il cuore del volatile, il Vietnam.
C’è un rettilineo che solo l’idiozia di qualcuno ha privato di una pista ciclabile, da un lato l’edificio per curare i nostri moribondi, dall’altro un’area enorme che ospiterebbe per sua natura uno dei parchi più belli della città, ma la miopia e il degrado ne faranno terra di conquista per cemento e asfalto. Sempre loro.
Fai attenzione a non cadere tra le macchine, lascia andare l’adrenalina mentre ti muovi tra le forme meccaniche, come una lingua di gatto fino al prossimo semaforo, che tutti blocca. Un incrocio in cui tutti passano e tutti sono fermi, devi fare sempre attenzione, ma l’obiettivo è vicino, iniziano a suonare i clàcson. Allora passi, e comincia la discesa.
Si inizia a scendere e potresti non pedalare fino a casa. E di nuovo è il terreno che ti spiega, che si rende visibile nella sua forma. Stai andando in una fossa, ne prendi consapevolezza con la fronte fredda su cui batte l’aria. Scendi e saluti le ultime luci, inevitabilmente commerciali. Ancora un incrocio che divide la sorte di molti. Sinistra o destra.
In ogni caso stai entrando nell’arteria principale, quella che porta il nome di tutto questo mondo. Prendendo a sinistra vai verso le ultime roccaforti cimiteriali delle auto, un tempo cattedrali ferrose del territorio, fino alla nuova arteria nei pressi del corso melenso del secondo fiume cittadino. Girando a destra si scende ancora, si scende ancora, si scende.
E scendendo si approda nella terra degli dei.
C’è ancora il tempo per salutare l’anfiteatro delle Acacie, che presto sarà raso al suolo per far posto a cemento e asfalto, sempre loro. Ma tu passi e osservi queste statue di corteccia e foglie, monumenti ancora eretti alla vita più rigogliosa che è stata qui padrona del tempo e dello spazio. Queste forme di vita ti osservano al di là della rete e pare che piangano, perché sono sole, nessun umano è lì a toccarle, guardarle da vicino. Non ci sono giovani amanti a baciarsi sotto le loro fronde, poggiati ai tronchi benevoli, no, c’è un silenzio anomalo, un’assenza che genera sgomento, paludi, ombre. E’ l’attesa della fine a cui nessuno è più in grado di porre rimedio. Sarà il delirio criminale di rombi a mano armata.
Le porte del nuovo mondo si aprono non a caso con la divinità arborea per eccellenza, dea della fioritura e dei cereali, il nome della quale contempla tutte le specie vegetali del cosmo. Qui la discesa termina, si accede nell’Ade e la temperatura scende vertiginosamente. Si entra in un tempo di lentezza e circospezione, di quiete e timore. Sul lato destro un piccolo bunker di cemento, a sinistra le case, in fondo la croce dei credenti.
Anche qui la vegetazione è rigogliosa, alberi maestosi sono padroni del terreno e a seconda delle stagioni invadono della loro presenza ogni cosa. C’è un silenzio amabile in questo tratto, le persone sono ammaliate dall’atmosfera vegetale, protetti dalle ampie fronde e dai rami, dal dio Silvano che coccola i suoi atri nascosto tra i palazzi.
Qui da ragazzo godevamo delle splendide domeniche calcistiche, quando tutto il quartiere si ritrovava per la partita. Oggi giovani di altri mondi portano vita, forza, bellezza, energia su quella pozzolana, anch’essa cimelio di un mondo in estinzione.
È una terra divina che ci ospita. È la fertilità della terra che ci insegna. Qui ogni seme può dar vita, ogni ramo germoglia e non si ferma.
Datemi un canneto
una pietra
i denti per inciderla
Scriverò del suono
e delle nostre origini
Chi ci guarda sa che siamo adepti di una religione invisibile con gli occhi rivolti al passato, e nel passato troviamo le foglie dai colori sgargianti, gli occhi delle cortecce. Conchiglie spiaggiate sono i resti di tutto il nostro significare, dei modi in cui abbiamo guardato e ipotizzato il mondo. Il nostro piccolo angolo di mondo. Si sgretola il pianeta sotto i colpi di mille saette colorate, e noi osserviamo col naso colante i fuochi d'artificio.
Siamo ancora nella caverna.
Scrissi qui dei versi d’amore per una ragazza che non li lesse mai:
“Ti amo perché ho il cuore sul termosifone di una casa popolare”
Aveva i capelli rossi. Poi scomparve.
A pochi centinaia di metri regna il signore del terrore assoluto, del tremore dell’anima, della paura fatta carne, della violenza abominevole, del ratto, dell’atto sessuale, della manifestazione divina più inquietante. Forse meriterebbe un luogo più adatto, ma è qui e dobbiamo conoscerlo. Da bambino mi chiedevo se fosse la via dove si faceva il pane, poi, col tempo compresi che c’era molto di più celato dietro quel piccolo nome di tre lettere, e forse anche per questo usai il nome pane per definire un mondo di arte e visione.
È in questo angolo di mondo che Lui dimora.
Ayurveda dice che le mie ore di sonno sono tra le 23 e le 7 del mattino. In effetti alle undici di sera ho sempre l'arrivo del primo sonno, come un vento leggero che mi porta via. Poi però mi sveglio spesso tra le tre e le quattro. Mi sveglio e comincio a leggere, libri bellissimi, avvolto nel silenzio della notte, protetto dalle divinità. Qualche rumore di macchina in lontananza, lo sbuffo di un autobus guidato da un giovane solitario; anche con l'orecchio di porcellana qui i cani latrano non abbaiano.
Sembra di essere in una baita isolata in montagna, e il silenzio naturale può essere improvvisamente rotto dal silenzio fuori ordinanza. È un momento di grande delicatezza, si sente appena quel suono di tromba, non disturba mai, anzi suggerisce riposo. I pensieri del giorno possono finalmente lasciar posto alla quiete notturna. E’ una forma della pace.
La natura mi ha fatto così, animale notturno che potrebbe leggere di notte, scrivere, pensare, andare per porti. Ma ci sono anche altre forze, quelle che dominano gli astri e dicono che tra non molte ore sarà giorno ed in massa, tutti insieme, saremo diretti nei luoghi di esilio, frastuoni, cingolati, scrivanie di compensato, di antiche noci, piedistalli. Non è un inganno, ma la materiale trasfusione del destino nella meccanica del tempo.
Claudio Orlandi – novembre 2021
Si consiglia la lettura nelle ore serali con sottofondo musicale "Thursday Afternoon" - Brian Eno
Il testo è stato pubblicato nel libro "A Roma - Pietralata, Casal Bruciato, Portonaccio. Storie quotidiane del quartiere capitolino." (Edizioni della Sera, 2022)
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