Tornare a casa
- Claudio Orlandi
- 19 nov 2024
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 21 nov 2024
L’aria non era fredda, ma la strada era tappezzata di chiazze d’acqua che brillavano alle luci della notte. Da giorni pioveva incessantemente e l’ambiente era carico di umidità. Nella navetta, tenendo in mano la mia valigetta di pelle, mi guardavo attorno in intima attesa di segnali esterni. In verità non sapevo bene cosa aspettarmi e che cosa avrebbero dovuto dirmi quei segnali, che al momento tacevano. In aeroporto la solita atmosfera da crematorio progredito, con sale stracolme di persone assonnate o con il viso ipnotizzato dagli smartphone. Non volevo guardare facce nuove o parlare con nessuno e cercai di lasciare quel posto più in fretta possibile, quasi correndo tra i corridoi e gli spazi dell’edificio. Raggiunsi in pochi minuti la stazione dei taxi e presi il primo disponibile, che si lanciò nella città come un razzo nel miele. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dai rumori della macchina, delle ruote sull’asfalto bagnato. Con un tempo che mi parve rapido mi ritrovai nella via di casa. Pagai il tassista e attesi che la macchina facesse manovra per lasciare la strada, solo allora mi avviai verso la palazzina. “Chi è?” - Al citofono mi rispose quasi subito una voce femminile che non conoscevo. “Sono Carlo” dissi. Non replicò e aprì il portone.
Poche rampe di scale e mi ritrovai davanti alla porta di casa. Mi aprì una donna più giovane di me, bionda con i capelli raccolti, una tuta bianca e delle scarpe leggere di tela azzurra. Posai la valigetta a terra e ci presentammo. Si chiamava Sofia. Mi fece entrare. In casa c’era una luce soffusa e un vago odore di minestra di verdure. La tv era spenta e una piccola radio emetteva musica classica a bassissimo volume. Sofia chiuse la porta.
“Tuo padre è a letto, ho detto che venivi, ma a quest’ora non riesce stare sveglio”
Non dissi nulla, lasciando intendere che comprendevo la situazione. Mi sedetti sulla poltrona accanto al tavolo da pranzo posto al centro della stanza. Accavallai le gambe e poggiai la testa completamente all’indietro, tenendo le braccia distese sui braccioli della poltrona. Le mani aperte. Chiusi gli occhi e iniziai a fare lunghi respiri. Dovevo e potevo rilassarmi.
“Suo letto è pronto”
Feci un cenno con la testa e dissi “Grazie”, a bassa voce, che forse udii solo io. Poi Sofia andò in bagno. Rimasi solo nella stanza.
Sentivo che fuori stava cominciando a piovere e il suono della pioggia prese a mescolarsi con la musica proveniente dalla radio.
La casa era cambiata. La stessa disposizione dei mobili, che a parte poche cose nuove erano gli stessi di dieci anni prima, ma mancava l’odore di fumo. Evidentemente da quando mio padre era stato colpito dalla malattia non aveva più toccato le sigarette e le mura avevano potuto respirare. Mentre cercavo di ricordare l’esatta composizione aromatica di quella miscela di carta da parati e tabacco respirato, che per tanti anni avevano caratterizzato quel posto, Sofia uscì dal bagno. Mi sorrise, ed io sorrisi, guardando i suoi occhi verdi e vivi, come rondini poggiate sul marmo.
Le feci cenno con la mano indicando la piccola radio che emetteva la musica.
“Ti piace?”
“Mio padre era violinista in orchestra di città, in casa abbiamo sempre ascoltato musica, fa anche compagnia” mi disse Sofia.
“E mio padre che dice? Gli piace?” chiesi.
“Sì, anche a lui piace, soprattutto prima di andare dormire la sera. Guarda un po’ di televisione poi un po’ di musica e poi lo metto a letto”
Rimasi in silenzio, pensando a come il tempo cambi le cose e le persone. Soprattutto preso dal pensiero di come mi sarei rapportato con una persona che forse non era più quella che avevo conosciuto. Era un pensiero irragionevole, perché si trattava pur sempre di mio padre. Ma in quel momento non riuscivo ad immaginarlo come padre, semmai come un essere vivente, un insieme cellulare, che per una perversione del loro destino avevano preso una via della quale io non ero più parte.
Osservavo Sofia con lo scopo di catturare dai suoi movimenti, da ogni parola e inflessione del tono della voce qualche indizio che mi potesse suggerire che tipo di persona fosse diventata adesso mio padre. Ma anche da questo osservare, mi rendevo conto di essere in un limbo privo di senso. Eppure, nonostante avessi questa consapevolezza, guardavo quella donna, nel vano tentativo di rintracciare un sistema di segni.
Dovevo ricordare ma allo stesso tempo dimenticare. Forse ero in ritardo. Ma in ritardo da cosa? Sarei dovuto venire prima? Prevenire ogni cosa? Le mie decisioni avevano forse influito sull’andamento degli eventi, e in che misura?
Domande inutili e in qualche modo fastidiose che si stavano affastellando nella mia mente, mentre seduto sulla poltrona, seguivo con lo sguardo Sofia muoversi lentamente nella casa, che adesso era più sua che mia. Cercai di cacciare da me ogni tipo di pensiero spiacevole.
“Vuoi bere qualcosa?” mi chiese.
“Hai un po’ di tisana digestiva? O una camomilla, va bene lo stesso”
Sofia aprì uno sportello della cucina, sopra la macchina del gas e tirò fuori una scatola di legno a forma rettangolare. Era dove teneva le bustine degli infusi. Mi mostrò una con su scritto Tisana al finocchio. Io feci segno di sì con la testa. Sofia allora mise un piccolo tegamino pieno d’acqua a bollire.
La situazione si stava mostrando nei fatti più semplice di quanto avessi potuto immaginare. Ancora una volta la realtà semplificava ogni cosa.
Fuori la pioggia si era fatta battente e il rumore delle gocce sulle piante quasi sormontava il suono proveniente della radiolina. Dopo qualche minuto di attesa, il suono dell’acqua in ebollizione prese il sopravvento su ogni cosa. Sofia spense il gas e versò l’acqua in una tazza. Poi vi adagiò la bustina dell’infuso scelto. Preparò tutto con cura e mi portò la tazza in un vassoio di metallo che poggiò direttamente sul tavolinetto accanto alla poltrona dov’ero seduto. La ringraziai.
“Tu non la bevi?” le chiesi.
“No, prima di andare a letto preferisco di no” Disse questa frase e si sedette in una delle sedie poste intorno al tavolo, poggiando il viso sul palco della mano destra. Per seguire mio padre Sofia aveva preso alloggio nella stanza che un tempo era stata mia. Io avrei dormito nella piccola stanza dove molti anni prima dormiva mia sorella. Tutto era sistemato con ordine.
Mio padre aveva sempre russato, ma in quella situazione non si sentiva alcun rumore provenire dalla sua stanza, che sembrava fosse vuota.
Tra il silenzio e il suono della pioggia iniziai a sorseggiare la tisana, tenendo la tazza tra le due mani. Lentamente sentii il bisogno di andare a letto, di sdraiarmi e dormire.
“Ho sonno” dissi a Sofia.
“Certo, dopo viaggio giusto riposare. E l’ora è quella giusta”
“Domani parleremo bene di ogni cosa, adesso meglio riposare” dissi a bassa voce, con la bocca quasi dentro la tazza a pochi centimetri dall’acqua calda.
Claudio Orlandi
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